Gli infermieri devono essere retribuiti anche per il tempo che impiega per vestirsi e svestirsi prima e dopo il turno (così detto “tempo tuta infermieri”)?
Talvolta è il contratto aziendale che prevede espressamente che questo tempo debba necessariamente essere pagato. In altri casi, ben più frequenti, i contratti collettivi non prevedono niente in merito.
Una conclusione affrettata: se il contratto tace, niente retribuzione.
Se volessimo trarre una conclusione affrettata, dovremmo ritenere che il tempo tuta infermieri possa essere computato nell’orario di lavoro, e quindi pagato.
Ma solo se previsto espressamente dal contratto di lavoro e dai contratti aziendali.
Prima di scoprire il punto di vista della Cassazione, è necessario un breve chiarimento.
Il lavoro subordinato, in generale, deve essere retribuito per tutto il tempo in cui il lavoratore è sottoposto ai poteri tipici del proprio datore di lavoro.
Si parla, a questo proposito, di eterodirezione.
E’ proprio questo elemento (eterodirezione) a chiarire se e quando il tempo tuta infermieri deve necessariamente essere retribuito dall’azienda.
Un primo (e superato) orientamento della giurisprudenza. Il tempo tuta infermieri deve essere retribuito solo se previsto dalla disciplina di impresa.
In un primo momento, la giurisprudenza si era limitata a ritenere che il tempo necessario ad indossare l’abbigliamento di servizio (c.d. tempo tuta) costituisca tempo di lavoro.
Quindi, questo tempo deve essere retribuito soltanto a fronte di specifiche previsioni in tal senso da parte della “disciplina d’impresa”.
Senza norme specifiche, si riteneva che l’attività di vestizione fosse semplicemente strumentale rispetto alla prestazione lavorativa.
In poche parole, secondo questa prima tesi, se la vestizione è necessaria a prepararsi al lavoro “normale”, questa non dovrebbe essere retribuita.

Cosa sostiene la Cassazione oggi. Tempo tuta infermieri da retribuire sempre, se l’attività viene svolta prima e dopo il turno.
Negli ultimi anni, però, l’orientamento della Cassazione ha subito una notevole evoluzione.
La giurisprudenza, infatti, ha preferito concentrarsi non tanto sulla presenza di una specifica “disciplina d’impresa”, quanto sulla funzione assegnata all’abbigliamento.
Si è giunti, così, ad osservare che la eterodirezione, ed il corrispondente diritto del lavoratore alla retribuzione, può derivare senza dubbio dalla disciplina di impresa. Questa (l’eterodirezione), però, può essere anche implicita, quando cioè gli indumenti sono diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di “normalità sociale dell’abbigliamento”.
Questo principio è stato ripreso recentemente da un’ordinanza della Corte di Cassazione (Cass. Civ., Sez. Lav., 7 maggio 2020, n. 8623), con cui è stato stabilito che:
“l’attività di vestizione attiene a comportamenti integrativi dell’obbligazione principale ed è funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria e costituisce, altresì, attività svolta non (o non soltanto) nell’interesse dell’Azienda, ma dell’igiene pubblica, imposta dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene”.
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, ordinanza n. 8623 del 7 maggio 2020.
In sintesi, il tempo impiegato dall’infermiere per vestirsi (e svestirsi) prima e dopo la fine del turno (e cioè il tempo tuta infermiere) non corrisponde soltanto ad un obbligo “lavorativo” nei confronti della propria Azienda.
Questo tempo corrisponde anche ad un’attività svolta a tutela di altri beni e valori protetti dall’ordinamento (igiene pubblica e sicurezza).
Questa precisazione comporta che il tempo tuta infermieri deve essere sempre retribuito.
Ciò anche quando il contratto collettivo, o comunque le regole dell’Azienda, non lo prevedano espressamente.
Il rifiuto di numerose Aziende o Istituti sanitari alla retribuzione degli infermieri per il “tempo tuta” è pertanto illegittimo.
Cosa fare se l’Azienda non paga.
Nel caso in cui un infermiere voglia essere pagato per il “tempo tuta”, è possibile intraprendere un’azione legale, cioè un ricorso davanti al Tribunale competente per territorio.
Con il ricorso è possibile chiedere la condanna dell’Azienda al riconoscimento della corrispondente integrazione dello stipendio.
E’ inoltre possibile recuperare la retribuzione anche per gli anni arretrati, nei limiti della prescrizione (5 anni).
A quest’ultimo proposito, è consigliabile che l’infermiere invii alla propria Azienda datrice di lavoro (o all’ex datore di lavoro, se il rapporto è cessato) una lettera raccomandata con cui chieda il pagamento del tempo tuta per il precedente quinquennio.
Questo adempimento, che può essere svolto anche senza l’assistenza di un avvocato, è estremamente utile.
La raccomandata, infatti, interrompe il decorso del termine di prescrizione, che ricomincia a scorrere da capo (e cioè per un ulteriore quinquennio).
Successivamente l’infermiere dovrà munirsi di un conteggio che quantifichi esattamente le somme dovute, a titolo di arretrati, per il tempo tuta.
Nel caso in cui l’Azienda dovesse continuare a rifiutarsi di pagare il tempo tuta infermiere, il lavoratore dovrà depositare un ricorso.
Il ricorso deve essere proposto davanti al Tribunale del lavoro per chiedere una condanna del datore di lavoro al pagamento di quanto dovuto.